Una lettera di Laurence Freeman (clicca qui per l’intera newsletter in inglese)
Carissimi amici,
ho passato l’ultimo mese nella bella città di Boston. Sono stato qui anche in passato ma non vi avevo mai abitato. Il periodo a Boston mi ha fatto riflettere come ogni città ha una sua propria personalità – o forse un’essenza identitaria che si ritrova costante attraverso i continui cambiamenti dei tempi. Le città stranamente assomigliano alle persone che le hanno costruite e che le abitano.
Ogni posto ha il suo spirito. Lo noti al primo sguardo ma lo assapori quando ci vivi. Il solo passarvi facendo delle fermate a richiesta in un giro turistico o fra gli impegni di lavoro ti fanno rimanere uno straniero sempre legato a quello che viene dopo nel tuo itinerario. Le città sono inconfondibili ma hanno anche tanto in comune. I loro fondatori sono arrivati in gruppo in cerca di sicurezza, di prosperità e di una spinta culturale; ancora di più oggi la gente viene alla ricerca di un lavoro ma anche probabilmente attirata dall’entusiasmo dell’anonimato, dell’essere assorbito nella folla. Forse questo spiega anche l’aspetto bizzarro di molte persone fra la folla delle grandi città sempre indaffarate. L’eccentricità ovviamente rende affascinanti le città poiché la vera eccentricità non è nel ricercare l’attenzione degli altri ma nello scegliere di apparire ed agire come ci si sente, diversi. Ma anche questi si mescolano anonimamente nella folla. E’ più semplice essere diversi in una grande città piuttosto che nel paese natale. Le città sono fluide, luoghi complessi in cui si può dolorosamente perdere se stessi ma anche, liberamente, trovare se stessi. Dato che il mondo si urbanizza sempre più (il 90% degli americani nei prossimi venti anni vivranno in città) il contatto con il mondo naturale diminuisce con conseguenze innaturali. Qui a Boston, mi sono sentito attratto dalle zone verdi, giardini, alberi, laghetti e piante delle quali gli urbanisti hanno riccamente dotato la città e che andiamo cercando perché ci aiutano a stare fisicamente e psicologicamente meglio – cosa che forse ho cominciato ad amare e godere a Bonnevaux.
Esser de-naturati è una pressione delle più disumanizzanti che colpiscono e feriscono molti individui causando problemi di salute mentale, spingendoli a diventare anonimi per esclusione piuttosto che per scelta. Molti abitanti delle città ovunque nel mondo hanno l’aspetto solitario, trascurato di chi è isolato dal fluire umano e naturale della vita; possono sembrare agonizzanti o rabbiosamente persi in un mondo alieno. Li vedete per strada “matti”, come la gente li chiama quasi a volersene difendere, che strillano il loro dolore ai passanti. Ma ciò è anche sintomatico della “normale” maggioranza la cui attenzione è fissa sui cellulari o di quelli che vogliono tenere lontano il mondo usando le loro cuffie. Un’altra caratteristica universale condivisa dalle città è quello sguardo di disperazione negli occhi dei senza fissa dimora che vivono sui marciapiedi o ranicchiati negli stretti spazi dei portoni. Un aspetto senza speranza che deriva dal loro profondo senso di disperazione. Sanno che i loro appelli verranno ignorati; e si sentono, come può succedere a ciascuno di noi, visti ma ignorati.
***
Fin da principio il cristianesimo ha messo in atto una opzione per i poveri: è la logica di fondo per fare attenzione e reagire con amore alle persone colpite dalla povertà ed escluse che finiscono messe da parte. Questa opzione per i poveri si sviluppa da una profonda riflessione sull’insegnamento di Gesù a proposito di prendersi cura di chi si è perso ed è escluso e diventa una pratica di vita. Anche i monasteri sono diventati catalizzatori di ospedali, ospizi e organizzazioni di sostegno. Col tempo questo insegnamento si è adeguato alle più ampie necessità urbane e alla desolazione dei poveri nell’industrializzazione. Nella visione cristiana il povero non può essere ignorato perché Cristo si è identificato con loro. Il mistico e il sociale sono incarnati insieme. Desiderano esser connessi all’esperienza della contemplazione attraverso le scritture e il silenzio della nostra stanza interiore, verso la metanoia sotto lo sguardo amorevole di Cristo. Questa connessione fra marginalizzati e contemplazione non è naturalmente un’esclusiva cristiana ma saggezza delle religioni universali. Il profeta Maometto insegnava che “il tuo sorriso rivolto al fratello è amore” e la Torah dice agli ebrei di occuparsi generosamente dello straniero, della vedova e dell’orfano.
Nel IV sec. l’imperatore Giuliano, educato da cristiano, dopo aver visto come i suoi parenti cristiani si uccidevano fra di loro, abbandonò il cristianesimo ma sottolineava di non aver mai visto ebrei o cristiani chiedere l’elemosina per strada. Come per i mussulmani di oggi aiutare chi finisce per passare inosservato è un obbligo personale. Non può esser delegato in toto ad una istituzione. Lasciati agli economisti e ai politici i “servizi sociali” cessano di essere un’espressione di amore. Ma c’è anche un realismo sociale nell’obbligo religioso di dar da mangiare all’affamato e vestire l’ignudo. Hanno visto una sequenza dall’essere mendicante a diventare ladro e alla fine un cadavere. La sanità sociale richiede una compassione che rispetti l’assoluto ed uguale valore di ognuno. Il “diritto di proprietà” così importante nel diritto penale moderno non è nemmeno menzionato nell’insegnamento di Mosè, di Gesù o di Maometto. I diritti dei ricchi hanno la precedenza sui diritti naturali del povero e la legge impicca i ladruncoli per aver rubato un fazzoletto di seta o i contadini per aver preso una pecora per poter nutrire la famiglia. Giuliano l’Apostata non è stato l’ultimo a perdere la fede nel cristianesimo quando ha visto quanto l’essenza dell’insegnamento di Cristo poteva andare perduta.
In tempi di austerità economica, sussidi sociali come agevolazioni ai poveri per i costi del riscaldamento, o il tepore culturale delle biblioteche pubbliche sono ridotti molto prima di quanto non si aumentino le tasse dei ricchi. Paradossale. Un ministro conservatore del Regno Unito di recente ha suggerito che i senza fissa dimora debbano venir multati per “la scelta di vita” che avevano fatto. La povertà e l’incapacità diventano il crimine ma non ciò che le ha causate. Helder Camara ha detto: “Quando aiuto i poveri mi chiamano santo. Quando domando perché sono così poveri, mi danno del comunista”.
Eppure la sapienza che troviamo in tutte le scritture ci mette in guardia dal crimine di indurire il nostro cuore, scelta perversa e autodistruttiva che deriva dall’avidità di potere. Al contrario, l’universale sapienza ci dice di prestare generosamente senza esigere il debito (Deuteronomio 15) ; esser generosi verso quelli che con il loro duro lavoro ci hanno fatto prosperare (come per esempio i lavoratori dell’impero dell’Amazzonia) senza mai dimenticare la vedova e l’orfano.
L’insegnamento essenziale che colleghiamo a Gesù – ama il tuo prossimo come te stesso – compare per la prima volta nel Levitico, un libro scarno di regole religiose. Ci possono far sorridere o fare una smorfia ma il loro scopo era quello di santificare la vita umana tutta, privata e sociale. Oggi la maggior parte di noi comprende meglio questa aspirazione alla santità come il nostro innato desiderio di divenire pienamente umani. “Come il Santo che vi ha chiamati, diventate santi anche voi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto: siate santi perché io sono santo“ (Pietro 1). Il riferimento di Gesù a questa umana aspirazione è chiaro ma distorto nella traduzione che usa la parola “perfetto”. “Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste”. La perfezione sembra un’astrazione ma la parola greca originaria ‘telios’ vuol dire veramente ‘portato a compimento, pienamente sviluppato, realizzato, totale, intero’. E questo è tutto ciò che meditiamo di divenire per diventare chi siamo.
…la saggezza di tutte le scritture ci mette in guardia
dal crimine di indurire il nostro cuore
L’attuale avversione nei confronti della religione istituzionale e la perdita dell’arte di saper leggere la scrittura ci hanno tagliato fuori dalle fonti essenziali della saggezza. Siamo incagliati in un oceano di tecno-scienza, burocrazia e timore per le nostre stesse scoperte. E’ pericoloso ed è causa di tanti sintomi negativi quanti ne derivano dai gravi deficit nutrizionali delle nostre diete che si basano su cibo industriale preconfezionato. In questi casi, terapie, centri benessere, auto aiuto sono tutti utili approcci . Hanno il loro valore ma non rimpiazzano certo ciò che è andato perso e adesso è dimenticato. Il tempo che compulsivamente passiamo a controllare messaggi o facciamo scorrere i video dei social media è sintomo di deficit spirituale ma non sostituto di una salutare comunicazione o di nutrimento spirituale.
Bloccati in questa nostra condizione, abbiamo perso la comunicazione tra il comune – che è il reale, il quotidiano e ciò che verifichiamo con l’esperienza – e il trascendente. Scrutiamo gli angoli più lontani del cosmo in cerca di una spiegazione del perché siamo qui o per trovare segni di vita. Per fortuna siamo insaziabilmente curiosi. Ma abbiamo dimenticato di esplorare il cosmo interiore del cuore. “Quell’essere della grandezza di un dito dimora nella profondità del cuore. Il Signore del tempo, passato e futuro. Quando l’hai raggiunto non hai più paura di nulla. Veramente è il “Sé” immortale (Katha Upanishad). Sant’Agostino ha trasformato il telescopio in un microscopio quando ha detto che Dio è più vicino a noi di quanto noi non lo siamo a noi stessi. Se Dio ci sembra distante, così succederà per il nostro prossimo, soprattutto il vicino sullo stesso marciapiede o in fila al banco alimentare. Le scritture ci insegnano la priorità umana dell’attenzione verso il povero e il bisognoso. Dai da mangiare all’affamato e poi pensa allo sviluppo. La saggezza è immanente,inerente a noi, ma non meno personificata – incarnata e di questo mondo. Aver cura di quello di cui nessuno ha cura è il portale del trascendente. Dio – e perciò la nostra stessa realtà – si trova nella verità presente, incarnata non in congetture sul futuro. Senza questa verità siamo delusi. Senza contatto diventiamo isolati.
***
La settimana scorsa un gruppo di pellegrini della WCCM ha visitato l’incantevole e bella città di Arezzo in Toscana, bella nello spirito dei luoghi e ricca di tesori d’arte d’importanza mondiale. Nel 1945 un soldato inglese disobbedì all’ordine di distruggere tutta la città che era stata occupata dal nemico. Ho pensato a questo fatto e alla giustificazione che era stata data dei bombardamenti su ospedali, scuole, infrastrutture e palazzi di abitazioni; era che il nemico si nascondeva proprio lì in quei luoghi. Applaudiamo al diniego militare per salvare i capolavori d’arte ma non per salvare la vita di civili inermi ? La mentalità che ha portato a Hiroshima e Nagasaki, è insidiosamente diventata la nuova normale pratica, un pragmatismo senz’anima respinto addirittura dalle guerre medioevali in quanto assurdo e disumano. Un tale allontanamento dall’umanità mette in evidenza come pericolosamente siamo sradicati dalla saggezza e dalla comprensione che rendono umano l’essere umano. Strappati dalla nostra vera natura, siamo ad un passo dall’arrivare ad usare le statistiche per giustificare l’ingiustizia. Paragonate il numero delle persone uccise nell’atrocità di Hammas il 7 ottobre con quello dei civili, soprattutto donne e bambini uccisi dopo a Gaza, molti dei quali se non la maggioranza, giacciono ancora sepolti sotto le macerie. O confrontate il numero delle persone uccise dopo l’attacco dell’11 settembre e poi nella guerra in Iraq. La giustizia rispetta le proporzioni. Come è compatibile questa distruzione sproporzionata con il diritto all’autodifesa o ad esistere in quanto stato ? Non si pensa alla giustizia dagli Egizi fino alla Corte della Corona (Old Bailey) come ad una bilancia in equilibrio ? Di recente mi hanno tacciato di essere “di parte”. In un certo senso ero d’accordo ed ho chiesto scusa con riserva. Esser di parte è partigiano e quindi un fallimento nel processo di pace. Eppure, quando la nostra unità si sente più forte della nostra trascendenza, è difficile non contraddirsi e prendere le parti dell’evidente vittima. Se è un errore anche Gesù l’ha commesso.
Ho imparato molto da Musa Al-Hattawi e Yuval Rahamim, uno palestinese e l’altro israeliano che hanno parlato all’apertura della nostra 24 Ore di Meditazione per la Pace. Ognuno di loro mi ha ispirato per la serenità del livello di saggezza raggiunto attraverso la sofferenza della perdita di persone amate durante il conflitto. Yuval che aveva perso il padre quando era ancora un ragazzo, aveva promesso e cospirato per la vendetta. Ma dopo qualche tempo hanno creato insieme il circolo dei genitori “Forum delle famiglie” per le persone che avevano sofferto allo stesso modo dalle due parti. Musa e Yuval come antichi padri del deserto sono stati sospinti all’amicizia con il nemico riconoscendo loro stessi nell’altro. Da questa esperienza di unità – attraverso la grazia della trascendenza – si sono rinsaldati nell’amicizia nel quotidiano fare la pace. Sanno che nessuna pace verrà dall’essere di parte. E come operatori di pace hanno rinunciato all’illusorio desiderio di vincere.
Anche da spettatori sentiamo di essere e siamo complici delle barbarie di massa, dell’olocausto, dei campi dell’eccidio in Cambogia, degli stermini di Stalin e di Mao o del genocidio in Rwanda. In tutte queste crudeltà i colpevoli e le vittime erano nostri fratelli e sorelle. La corresponsabilità è più grave della diffusione di vergogna e colpevolezza. E’ il condizionamento della reale unità dell’intera famiglia umana in quanto unico Corpo, passato e futuro. Questa unicità è una trascendente meraviglia ma anche una tortura. (Il dolore della Croce fu tanto grande che i Romani usarono una nuova parola – ex cruciare). E’ angosciante essere in pace con il colpevole e con la vittima, ma respiriamo la stessa aria. La nostra unitarietà terrestre trascende il nostro paradossale pianeta, oltre ogni orizzonte dell’universo.
Non possiamo meditare sinceramente
senza affrontare gli sconcertanti dolori
del nostro mondo e delle nostre vite individuali
Potreste dire “quando smetterà di esser politico e comincerà a diventare mistico ?” In effetti sono convinto che non lo pensiate ma avete già cominciato a vedere la connessione in ciò che sto cercando di esprimere.
Prima di tutto non possiamo meditare sinceramente senza affrontare gli sconcertanti dolori del nostro mondo e delle nostre vite individuali: una diagnosi medica, la perdita di una persona cara, la nascita di un bambino o innamorarsi o un atrocità su larga scala. Sono fatti che cambiano la vita e così, se non riusciamo ad assorbirli, opponiamo resistenza al realizzarsi del sacro mistero della vita. Se continuassimo a meditare ma facendo resistenza, nel rifiuto o nella rabbia, la meditazione diventerebbe una questione individualistica, una via di fuga alla ricerca del “benessere” piuttosto che della molto più onerosa pienezza di vita. Meditanti nella stessa comunità avranno differenti opinioni politiche o morali sui dilemmi del nostro tempo. (“Una comunità di fede composta da persone di credo differenti.”) Quel che condividono, più profondo delle differenze, nasce dalla loro unità. Ciò dona la capacità contemplativa di far fronte alle sfide della vita e di ascoltarsi l’un l’altro in modo leale e diretto. Possiamo non essere d’accordo sulle soluzioni, ma saremo d’accordo su dove si trova la speranza di riconciliazione: nell’unico punto di unità dove si incontrano l’ordinario e il trascendente.
In secondo luogo, quello sguardo distante negli occhi dei senza fissa dimora è una richiesta di esser riconosciuti anche se ad un certo livello potrebbe essere ingannevole. Se capisco la parabola del Giudizio Finale ( Matteo cap. 25), Gesù dice che il loro sguardo verso di noi è il suo sguardo universale, il suo incitamento ad amare oltre quello che sentiamo sia nelle nostre possibilità. La nostra risposta è chiaramente diretta anche a lui come alla persona che abbiamo davanti agli occhi. “Tutto quello che avete fatto ad uno solo di questi miei fratelli o sorelle anche i più piccoli, l’avete fatto a me”. L’impossibilità di fare ci apre alla realtà. Ad un certo punto anche noi diventiamo l’emarginato che non ha “un’agenzia” a cui fare reclamo o la possibilità di controllo contro il potere oppressivo dell’ingiustizia. Avete un’idea di cosa significa esser vulnerabile e indifeso quando tutti i mezzi di auto difesa non ci sono più ? Gesù lo sapeva, in quanto parte della Passione di Cristo, quando accettò di cadere nel fondo peggiore della condizione umana. Così facendo, ci ha mostrato che essere derelitto non è essere senza speranza.
La vera speranza in effetti – diversa dall’illusione – è concepita nell’impotenza di chi non ha nessun potere, è alla mercé degli eventi o nelle mani degli altri. Nasce dall’aver fatto esperienza di unitarietà con gli altri quando siamo superiori alla vendetta e al colpevolizzare. (Può essere il perdono). Poco prima di morire un politico di lunga data, specialista nel tenere sotto controllo persone e situazioni cominciò a meditare. Lo trovava difficile ma comunque era una sfida di cui aveva bisogno in quella fase della vita. Mi disse che gli avevano chiesto di lasciar perdere l’abitudine di tutta la vita di essere sempre in controllo. Sapevo che lui sapeva di cosa parlava quando mi chiese: “ Il mantra ? Si tratta di lasciar perdere il controllo, non è vero ?”
Per chiunque, che sia una persona che non si nota o al centro del potere, rinunciare al controllo e scegliere di essere debole e impotente in un primo momento è terribilmente ripugnante. Facciamo resistenza. Fino a che alla fine di un lungo processo, patteggiamo su piccoli modi di rimanere in controllo. La fine arriva solo quando possiamo dire col nostro ultimo respiro “tutto è compiuto”. Nell’istante di pura impotenza arriviamo all’autentica speranza. Abbiamo raggiunto il traguardo con un’ultima rinuncia senza alcuno sforzo. Fino ad allora impariamo ripetendo sempre gli stessi errori, cosa che certo non è segno di speranza. Ciò può esser frustrante. Ma è opera di grazia. Fino al momento in cui appare la verità, pensiamo alla grazia come attimi di buona sorte che apparentemente ci offrono quel che vogliamo. Ma la grazia non è così benevola, sebbene la si voglia immaginare tale. E’ sì delicata e gentile ma anche irremovibile.
***
Solo la povertà radicale della disperazione ci permette di essere pienamente conforme al “volere di Dio”. E chi può mai dire qual’è la “volontà di Dio” finché non siamo completamente sincronizzati con essa. Ciò implica rinunciare alla capacità di vedere la volontà di Dio e la nostra come diverse. Poi dobbiamo passare nella nube del dimenticare tutto quello che una volta, con compiacimento, consideravamo come il nostro lasciare andare. La rinuncia genuina succede e basta; svanisce al momento giusto.
Non possiamo “fare la volontà di Dio” se consideriamo o ci attacchiamo ad una memoria come fosse diversa dal nostro desiderio. Essere uno con il volere di Dio è rendersi conto che niente altro è reale. Questo avviene non con un assenso intellettivo ma con un accordo sincero come quando amiamo. Diveniamo presenti in modo totale e sacro. Può succedere nella coda al supermercato o in mezzo agli alberi o circondati dalla bellezza o giocando con un bambino e, anche se meno probabile, in una chiesa o magari leggendo una newsletter. Proprio in questo momento percepiamo e sappiamo di esser scivolati, o trovati per caso o esser stati guidati in una dimensione superiore della realtà. O di “consapevolezza” però non legata al pensiero ma solo a quello che “vediamo”.
In questa dimensione onnipresente diventiamo ciò che vediamo. L’impotenza è una necessaria preparazione al fine di farci vedere che questa dimensione non è mai lontana da noi. Percepiamo che è lì, come “qualcosa di più” o “qualcosa d’altro” che sentiamo dall’infanzia. Ma è qualcosa sempre presente, la sorgente di tutto e del poco che sappiamo di nulla. La verità importante di questa sorgente è che non è l’inizio di nulla. E’ sempre stata uno con tutto ciò che alimenta (o “crea”). Quando e se ci accorgiamo che è sempre stata “unita a noi” giungiamo alla fine del desiderio. Sappiamo con certezza di essere davanti ad una realtà totale e indicibile. La possiamo chiamare amore, fedele attraverso ogni dimensione della realtà ed in ogni situazione della nostra breve vita.
Com’è ironico che il controllo ed il potere che cerchiamo a tutti costi, le guerre spietate che dichiariamo, tutte le cose che desideriamo avidamente o dalle quali diventiamo dipendenti, da lodare o distruggere a seconda delle nostre immaginarie ideologie, disperazione che non ci faranno mai piacere, o nostre illusioni di possesso che neghiamo agli altri – tutto questo in modo disarmante e ridicolo ci viene dato in modo tanto semplice quando siamo assolutamente vulnerabili. E’ l’insegnamento del Vangelo rivelato non con idee complesse ma nella storia di vita e nell’insegnamento di un’unica persona presente nelle nostre tre dimensioni ma riconoscibile solo in quell’altra dimensione destinata ai poveri nello spirito.
***
Tutto ciò è solo finzione ? Se è vero, allora com’è che secoli dopo secoli continuiamo ad avvelenare la nostra creatività ideando nuovi modi di oppressione e crudeltà ? E’ il risveglio della natura diabolica. Forme di spettacoli popolari, film su assassini seriali o dell’orrore dimostrano che siamo affascinati e nauseati dalla lotta epica fra bene e male. Quelli che abusano del loro potere in politica, nei media, nella finanza o nella religione rivelano anche qual’è il lato oscuro. Ma ne possiamo vedere i semi e le tracce anche in noi stessi. Nel vedere il lato demoniaco dell’umanità ci risvegliamo dal sogno diabolico nello stesso istante in cui siamo immersi nella luce dell’amore di Dio. La Crocefissione ha portato l’oscurità sulla faccia della terra, ma la Resurrezione venne alle prime luci dell’alba.
Il male non esiste in natura, e nessuno è per natura malvagio perché Dio non ha creato nulla che non sia buono. Quando qualcuno nei desideri del cuore concepisce e dà forma a ciò che in realtà non esiste, allora ciò che desidera comincia ad esistere. Perciò noi dovremmo distogliere l’attenzione dall’inclinazione al male e concentrarci sulla memoria di Dio; perché il bene che esiste in natura, è più potente della nostra inclinazione al male. Il primo ha vita mentre l’altro no, eccetto quando gli diamo vita attraverso le nostre azioni (Diadoco di Foticea, sec.V)
Chiunque cerca veramente, ogni meditante è guidato lungo il crinale del cammino di discernimento fra bene e male, fra il reale e l’irreale. Il cammino irradia la verità di ciò che ci trasmette, con parole che sono per così dire diamanti. Ogni vita che segue questo percorso in povertà, diventa un’energia di bene trascendente nel mondo che collabora con l’amore fedele del Principio sempre presente. Siamo impotenti ma partecipiamo alla gloriosa bellezza e bontà della corrente creativa della vastità senza orizzonte del Creatore.
***
Il tema della WCCM per il 2025 si richiama a “ Il rischio di vivere insieme”. Ci fa pensare a ciò che John Main chiamava “il rischio di amare tutto”: dare noi stessi prima di avere la garanzia di essere accolti. Si applica alle relazioni personali e ai conflitti globali. Come negli anni scorsi il tema avrà slancio e ricchezza nell’arco dell’anno in una serie di incontri on line che saranno guidati da un ampio gruppo di interlocutori di talento e innovativi, con anche un forum di dibattiti fra una sessione e l’altra.
Questo è un modo pratico e coinvolgente per analizzare come i temi, con voi condivisi brevemente in questa lettera, possano diventare non solo altre parole che producono ulteriori ipotesi ma approfondimento per vedere la realtà in modo trasformante.
Come Diadoco ci ricorda la linea di confine fra bene e male è la stessa che definisce il reale e l’irreale. La propensione umana a preferire l’illusione di desiderare ciò che è irreale ci ha portato oltre quella linea, in quella specie di oscurità di cui facciamo esperienza ai giorni nostri. Ma, – oh felix culpa ! – con la grazia dell’impotenza lo stesso problema diventa la soluzione. Finita l’illusione si dissolve l’oscurità e riporta la pura e pacifica luce della realtà. Tutti gli esseri umani sono capaci di percepirla perché è la luce dell’amore, la pienezza di vita, tutto ciò a cui aspira l’umanità.
Ecco perché la nostra pratica contemplativa dona speranza al mondo e la comunità che ne viene creata è in grado di correre il rischio di vivere insieme e crescere verso la completezza.
Con grande affetto,
Laurence Freeman O.S.B.