Quando meditiamo, da soli, in gruppo o in comunità, è impossibile non diventare consapevoli del profondo rapporto tra la meditazione e il mondo in cui viviamo. Da questa consapevolezza, fiorisce una esperienza di connessione – il terreno dell’essere in cui siamo tutti radicati – che si esprime attraverso un senso crescente di responsabilità. La nostra coscienza naturale ci guida poi ad agire con responsabilità negli ambiti della vita che risultano più appropriati e in questo celebriamo il matrimonio tra contemplazione e azione. La forza che guida questo processo è l’amore. La compassione è l’amore che unisce coloro che soffrono. È redentrice perché, contro ogni aspettativa, pone una luce nella profondità più scura e rilascia gioia di essere, nel cuore delle peggiori delle tragedie.
La reazione collettiva a una tragedia nazionale può rivelare la capacità universale di compassione. Mentre questa capacità è soddisfatta, siamo in grado di vedere la vita in prospettiva. I valori veri sostituiscono quelli falsi. L’impazienza e l’intolleranza tra i popoli che derivano dalla paura, si placano e ci si cura a vicenda in quei momenti di grazia con simpatia e rispetto. Il regno, direbbero i cristiani, è vicino. La sua interiorità si manifesta nelle relazioni umane. Ma sappiamo purtroppo che questi momenti di pace non durano a lungo…Uno dei significati della sofferenza e del male è sicuramente che ci attire e ci porta, sia pure per un breve periodo, nella consapevolezza condivisa della realtà della comunione. Lo vediamo il regno…non è un prodotto da consumare ma quello senza tempo ed è il terreno sconfinato dell’essere. A condizione che non siamo diventati insensibili alla sofferenza, noi riusciamo così ad intravedere nella tragedia, non solo quanto non sia distante, ma quanto vicino sia Dio a noi.
Brano tratto da Laurence Freeman OSB, “Letter Four,” THE WEB OF SILENCE (London: DLT, 1996), pp. 38-39.